Regime degli impatriati e smart working: un fenomeno in espansione senza limiti

Regime degli impatriati e smart working: un fenomeno in espansione senza limiti

 Redatto in data 19 Aprile 2022 da Federico Andreoli

Regime degli impatriati e smart working: un fenomeno in espansione senza limiti

Il regime degli impatriati, approvato e modificato prima del COVID-19 è, forse, stato stravolto dalle conseguenze dell’emergenza sanitaria che hanno sdoganato e diffuso lo smart working (remote working) non solo per dipendenti e quadri ma anche per le figure apicali delle multinazionali. Le recenti Risposte AE danno atto di un fenomeno in grande espansione grazie alla assenza di limiti qualitativi e quantitativi. Lo smart working ha così trasformato un regime originariamente ideato per fare crescere il Sistema Italia con l’ingresso di professionalità e competenze estere (expatriates), in un regime attrattivo non dissimile nella ratio da quello previsto dall’art. 24-bis TUIR per i neo-domiciliati e dall’art. 24-ter TUIR per i pensionati esteri.

Le (poche) condizioni previste per il regime degli impatriati

Come è noto il c.d. regime degli impatriati disposto dall’art. 16 D.Lgs 147/2015, nella versione attualmente vigente, prevede che per 5 anni solo il 30% del reddito di lavoro dipendente (o assimilato o di lavoro autonomo) sia soggetto a tassazione se vengono rispettate poche semplici condizioni. In estrema sintesi, ai sensi del c. 1 il lavoratore deve:
a) trasferire la residenza fiscale in Italia;
b) non essere stato residente in Italia nei due periodi d’imposta precedenti e impegnarsi a risiedere in Italia per almeno 2 anni;
c) svolgere l’attività lavorativa prevalentemente nel territorio italiano.
In base al successivo c. 2, rivolto anche ai cittadini di Stati diversi dalla UE con il quale risulti in vigore una convenzione contro le doppie imposizioni o un accordo sullo scambio di informazioni in materia fiscale, il contribuente:
a) deve essere in possesso di un titolo di laurea e aver svolto continuativamente un’attività di lavoro dipendente, di lavoro autonomo o di impresa fuori dall’Italia negli ultimi 24 mesi o più; o b) deve aver svolto continuativamente un’attività di studio fuori dall’Italia negli ultimi 24 mesi o più, conseguendo un titolo di laurea o una specializzazione postlauream. Come è noto, a certe condizioni: (i) il regime può essere esteso per ulteriori 5 anni (art. 16 c. 3-
bis); (ii) la base imponibile è ridotta al solo 10% (invece del 30%) qualora l’impatriato stabilisca la propria residenza nelle Regioni del Centro e Sud Italia (art. 16 c. 5-bis); (iii) il regime può essere esteso ai redditi d’impresa (art. 16 c. 1-bis).
In altri termini l’art. 16 non pone limitazioni quantitative, nel senso che il reddito imponibile è soggetto a riduzione indipendentemente dall’ammontare del reddito stesso. Quindi, stipendi e bonus milionari godono dei medesimi benefici previsti per salari medio bassi.
Inoltre, l’art. 16 non pone nessuna condizione qualitativa circa le  caratteristiche dell’attività svolta. Infine, l’art. 16 pone condizioni decisamente poco stringenti circa le qualifiche del contribuente che trasferisce la residenza in Italia (nessuna restrizione è prevista dal c. 1 e sono poche quelle previste dal c. 2).
Invece, nella formulazione originaria, in linea con la finalità di arricchire il sistema Paese grazie all’ingresso (o al rientro) di competenze professionali estere, il regime degli impatriati prevedeva delle condizioni più qualificanti. Tuttavia, tali condizioni sono state rimosse nel 2019 dall’art. 5 “Decreto Crescita” (DL 34/2019 conv. in L. 58/2019) che ha ridisegnato i requisiti soggettivi e oggettivi previsti per il regime degli impatriati. Infatti, Il Decreto Crescita ha cancellato due condizioni originariamente previste:
– l’art. 16 c. 1 lett. d) prevedeva che il contribuente doveva rivestire ruoli direttivi o essere in possesso di requisiti di elevata qualificazione o specializzazione come definiti con DM;
– l’art. 16 c. 1 lett. b) prevedeva che l’attività lavorativa doveva essere svolta presso un’impresa residente nel territorio dello Stato in forza di un rapporto di lavoro instaurato con questa o con società che direttamente o indirettamente controllano la medesima impresa, ne sono controllate o sono controllate dalla stessa società che controlla l’impresa.
Per un esame di tali due condizioni, oggi non più applicabili, si veda la Circ. AE 23 maggio 2017 n. 17/E par. 3.3.

Smart working e la condizione dell’attività lavorativa prestata prevalentemente in Italia

Si può quindi affermare che, a seguito delle modifiche apportate nel 2019 dal Decreto Crescita, il regime degli impatriati abbia cambiato parzialmente “pelle”; divenendo anche un regime di pura attrazione fiscale, non dissimile, nella ratio, da quelli previsti dagli artt. 24-bis e 24-ter TUIR per i neo-domiciliati e per i pensionati esteri.
In questa trasformazione (forse non interamente voluta e/o prevista dal legislatore) ha senza dubbio giocato un ruolo fondamentale l’improvviso diffondersi dello smart-working (o remote working), come modalità “ordinaria” di svolgimento dell’attività lavorativa post COVID-19. Infatti, la condizione posta dall’art. 16 c. 1 lett. b), per cui l’attività lavorativa deve essere svolta prevalentemente in Italia, ha oggi perso molta della sua funzione restrittiva per il diffondersi dello smart working. Ciò emerge chiaramente se si considera che, in molte occasioni, l’AE ha affermato che per “luogo di prestazione” dell’attività lavorativa, nella particolare ipotesi di svolgimento della prestazione medesima nella modalità di svolgimento dell’attività lavorativa flessibile (cd. Smart working o lavoro da remoto) bisogna avere riguardo al luogo dove il lavoratore dipendente è fisicamente presente quando esercita le attività per cui è remunerato” (Risp. AE 23 settembre 2021 n. 621). In quella occasione l’AE aveva negato l’applicabilità del regime degli impatriati perché, causa COVID, il dipendente di una società italiana, nel corso del 2020, era stato presente in Italia solo 76 giorni, mentre per il resto dell’anno aveva lavorato in smart working dall’estero.
In senso speculare, in molte occasioni l’AE ha affermato che l’attività di lavoro svolta in smart working da una persona presente fisicamente in Italia soddisfa la condizione dello svolgimento dell’attività in Italia prevista per l’applicabilità del regime degli impatriati. Ad esempio, nel corso del 2021 l’AE si è espressa in questo senso nelle seguenti risposte ad interpello: Risp. AE 7 luglio 2021 n. 458; Risp. AE 15 settembre 2021 n. 590; Risp. AE 16 settembre 2021 n. 596; Risp. AE 23 settembre 2021 n. 621.
Nel corso del 2022 si vedano le Risp. AE 7 gennaio 2022 n. 3; Risp. AE 31 gennaio 2022 n. 55;
Risp. AE 25 marzo 2022 n. 157; Risp. AE 8 aprile 2022 n. 186.

Smart working in Italia a favore di datore di lavoro estero

Il secondo aspetto su cui hanno inciso profondamente le modifiche del Decreto Crescita è, come già indicato, la soppressione dei requisiti relativi al datore di lavoro del soggetto rimpatriato. Infatti, a fare data dal 2019, possono accedere al regime degli impatriati anche persone fisiche che lavorano per un datore di lavoro non residente in Italia. Ciò senza alcuna limitazione, sia il datore di lavoro residente o meno in uno Stato con cui l’Italia ha sottoscritto una convenzione contro le doppie imposizioni o un accordo per lo scambio delle informazioni.
Questo aspetto è stato affermato dalla Circ. AE 28 dicembre 2020 n. 33/E par. 7.5 ed è stato confermato in tutte le risposte ad interpello elencate sopra. Per altro in tutte e quattro le risposte rese nel corso del 2022 (n. 3, 55, 157 e 186) le fattispecie (che hanno tutte ricevuto parere positivo dall’AE) riguardavano situazioni in cui l’impatriato trasferiva la propria residenza fiscale in Italia per continuare a lavorare per il medesimo datore di lavoro estero.
Deve essere sottolineato che la norma (art. 16 c. 1 lett. b) prevede che l’attività lavorativa deve essere prestata “prevalentemente” in Italia. Sul significato di prevalenza si ricorda quanto espresso dall’AE nella Circ. AE 28 dicembre 2020 n. 33/E par. 7.2, che, richiamando l’art. 1 c. 1 lett. c) DM 26 maggio 2016 (recante le disposizioni di attuazione del regime speciale degli impatriati) ha precisato che tale condizione deve essere verificata in relazione a ciascun periodo d’imposta e risulta soddisfatta se l’attività lavorativa è svolta nel territorio italiano per un periodo superiore a 183 giorni nell’arco dell’anno. Tale aspetto era già stato chiarito dalla precedente Circ. AE 23 maggio 2017 n. 17/E par. 3.3, che aveva affermato che nel computo dei 183 giorni rientrano non solo i giorni lavorativi ma anche le ferie, le festività, i riposi settimanali e altri giorni non lavorativi. Non possono essere, invece, computati i giorni di trasferta di durata superiore a 183 giorni o il distacco all’estero, essendo l’attività lavorativa prestata fuori dal territorio dello Stato.
In altri termini, l’art. 16 DL 147/2015 impone solamente che il lavoratore sia fisicamente presente in Italia per svolgere la propria attività lavorativa, anche se ciò avviene con le modalità dello smart working (remote working) e anche se l’attività è prestata per un datore di lavoro estero (magari lo stesso per cui l’impatriato lavorava prima del trasferimento della residenza).

La Risp. AE 8 aprile 2022 n. 186

Nei paragrafi che precedono si è indicato che le modifiche apportate, ante COVID, dal Decreto Crescita (anche grazie alla diffusione dello smart working) hanno comportato un passaggio di status nel regime degli impatriati, facendogli assumere anche caratteristiche di pura attrazione fiscale. Perché è evidente che ai fini della crescita del Sistema Paese una cosa è incentivare l’ingresso di elevate professionalità che vengano a lavorare in Italia per aziende italiane, altra cosa è proporre vantaggi fiscali a chi si sposta in Italia ma lavora a favore di aziende/società estere.
La Risp. AE 8 aprile 2022 n. 186 è paradigmatica per dimostrare questo cambiamento di finalità sottese alla norma. Infatti, l’AE ha confermato l’applicabilità del regime dei lavoratori impatriati a un soggetto che lavora con un “ruolo apicale” per una società multinazionale con sede a New York e che svolgeva mansioni definite come “coordinare progetti su scala globale”.
Dall’interpello emerge che il manager si sarebbe trasferito in Italia per lavorare in modalità “remote working”, sempre per il medesimo gruppo multinazionale e per svolgere le medesime mansioni cioè co-ordinare le “operazioni globali” della società.
Risp. AE 7 gennaio 2022 n. 3
Risp. AE 31 gennaio 2022 n. 55
Risp. AE 25 marzo 2022 n. 157
Risp. AE 8 aprile 2022 n. 186
art. 16 D.Lgs. 147/2015