La Cassazione interpreta severamente l’onere della prova contraria in merito alla presunzione di redditività delle attività estere non dichiarate in RW (art. 6 DL 167/1990).

La Cassazione interpreta severamente l’onere della prova contraria in merito alla presunzione di redditività delle attività estere non dichiarate in RW (art. 6 DL 167/1990).

Notizia pubblicata su MEMENTOPIU’ del 17 giugno 2021 da Federico Andreoli

Presunzione di redditività delle attività estere non dichiarate: Cassazione molto severa

La Cassazione detta severi principi per l’applicazione della presunzione di fruttuosità (pari al tasso ufficiale di riferimento) delle attività finanziarie detenute all’estero e non dichiarate ai fini RW.
Viene legittimata la quantificazione presuntiva delle disponibilità finanziarie estere e si sancisce che, per contrastare la presunzione di fruttuosità, il contribuente deve fornire prova contraria.

La presunzione di fruttuosità prevista dall’art. 6 DL 167/90

Nell’ambito del corpus di norme previste dal DL 167/90 sul monitoraggio fiscale, occupa un ruolo di grande rilievo pratico l’art. 6 che disciplina una presunzione di fruttuosità per le attività finanziarie estere non dichiarate ai fini del monitoraggio. In sostanza, il capitale detenuto all’estero e non dichiarato si presume produttivo di interessi, salvo prova contraria.
La norma, seppur oggetto di diverse modifiche, è efficace sin dal 1990 e per un lungo periodo (cioè gli anni in cui l’inflazione italiana era anche due cifre), ha costituito un vero e proprio “spauracchio” per i contribuenti.
Nella versione oggi applicabile (dopo le modifiche introdotte dall’art. 9 lett. e) L. 97/2013), la norma prevede che gli investimenti esteri e le attività estere di natura finanziaria, trasferiti o costituiti all’estero, senza che ne risultino dichiarati iredditi effettivi, si presumono, salvo prova contraria, fruttiferi in misura pari al tasso ufficiale di riferimento vigente in Italia nel relativo periodo d’imposta (TUR).
Nelle versioni previgenti, la fruttuosità era calcolata sulla base del tasso ufficiale medio di sconto (TUS). Inoltre, erano diverse, sia le definizioni delle attività estere costituenti la base di calcolo del tasso di interesse, sia le norme procedurali per contrastare la presunzione di redditività; ma la sostanza era la medesima.
Considerato che la presunzione di fruttuosità è soggetta a prova contraria, a fronte dell’accertamento dell’AE, il contribuente che non aveva dichiarato in RW le attività estere, si è sempre trovato di fronte a due alternative (entrambe pessime): (i) fornire alla AE tutte le “carte” per dimostrare quali erano i redditi effettivi; o (ii) evitare la produzione documentale e subire la determinazione presuntiva del reddito di capitale.
Evidentemente negli anni più recenti, caratterizzati da tassi di interesse ridotti, la norma ha perso gran parte della sua deterrenza. In tal senso, la Cass. 14 giugno 2021 n. 16701 in esame è rilevante perché pone l’accento sull’altro braccio della bilancia dell’art. 6 DL 167/90: non solo il reddito pari al TUR; bensì anche la quantificazione presuntiva del capitale su cui applicare il TUR.

Il caso sottoposto al giudizio della Cassazione

L’AE ricorre contro la sentenza della CTR Piemonte 20 agosto 2012 n. 36 parzialmente favorevole a un contribuente che aveva trasferito la propria residenza in UK nel 1997.
Interessante segnalare che la verifica dell’AE era scattata proprio sulla base di segnalazioni delle autorità fiscali inglesi. Nel 2008 la AE accertava la residenza fiscale in Italia del contribuente per gli anni 2003 e 2004 ed emetteva due avvisi di accertamento ai fini IRPEF (oltre a IRAP e IVA) e due atti di contestazione per le sanzioni RW.
Dalla Ordinanza si evince che l’AE aveva avuto evidenza che dal 1998 al 2003 il contribuente aveva percepito compensi pagati sui suoi conti correnti inglesi da una società svizzera per attività di consulenze. Non è dato sapere se siano stati i flussi svizzeri e il recente trasferimento in UK ad aver allertato le autorità inglesi tanto da fare la segnalazione alla l’AE.
Comunque sia, la vicenda oggetto di giudizio della Cassazione, non riguarda la residenza fiscale o i redditi di lavoro autonomo, bensì un argomento molto più specifico: l’ammontare dei redditi di capitale non dichiarati determinati in base alla presunzione di fruttuosità del citato art. 6 DL 167/90.
L’AE aveva determinato presuntivamente la base di calcolo su cui applicare il TUR sommando tutti i bonifici fatti al contribuente dalla società svizzera tra il 1998 e il 2003, affermando che era “ragionevole presumere che quegli importi siano rimasti pressoché integri sul conto inglese per cui può presumersi che” alla fine del periodo d’imposta 2003 il contribuente “disponesse di una consistenza bancaria pari alla somma degli importi incassati dalla società svizzera”. L’AE ha cioè presunto che tutti i bonifici dal 1998 fossero esistenti (senza alcuna variazione o diminuzione) come capitale nel 2003 (e nel 2004) e su questa base ha applicato TUS, per ricavare il reddito di capitale soggetto all’imposta sostitutiva sulle rendite finanziarie.

Il punto centrale della controversia

Da quanto sopra risulta che il contenzioso si è incentrato sulla prova contraria prevista dall’art. 6 DL 167/90.
La CTR Piemonte (diversamente dalla CTP) aveva accolto le doglianze del contribuente e aveva negato la correttezza della determinazione presuntiva delle disponibilità estere su cui la AE aveva applicato il tasso di interesse del TUS. Si legge nella Ordinanza che la CTR ha ritenuto che “secondo l’id quod plerunque accidit il contribuente avesse speso per sé o per la sua famiglia parte dei proventi di cui all’attività di consulenza”, cioè che il capitale su cui applicare il TUS era minore di quello determinato dall’Ufficio.
Dalla lettura della Ordinanza non è chiaro se il contribuente abbia fornito o meno alla AE tutti i documenti bancari (probabilmente no), ma emerge che ha cercato di fornire la prova contraria prevista dal citato art. 6, dimostrando un tenore di vita particolarmente dispendioso con costi rilevanti che via via nel tempo avrebbero drenato le disponibilità presenti sul conto bancario estero. Di fatto il contribuente aveva affermato la irragionevolezza del metodo presuntivo utilizzato dall’ufficio che aveva applicato il TUS sulla semplice somma aritmetica di tutti i bonifici ricevuti in 6 anni (1998-2003) sul conto corrente estero.
Avendo dichiarato che la quantificazione del valore delle attività finanziarie estere non era corretta/ragionevole, la CTR ha conseguentemente annullato la ripresa a tassazione degli interessi presunti su tale valore.
Semplificando, il contribuente ha fornito la prova contraria ex art. 6 affermando che il capitale su cui applicare il TUS non poteva essere di 100 come affermato dall’Ufficio. Invece, l’art. 6 sembra essere stato concepito più nel senso che dato 100 di capitale, il contribuente dovrebbe fornire la prova che il rendimento è inferiore al TUS/TUR. Nel caso di specie questi due aspetti hanno sfumature diverse anche perché dalla Ordinanza sembra di capire che il contribuente non abbia fornito alla AE (e ai giudici) evidenza che il tenore di vita sia stato alimentato proprio da addebiti/prelevamenti sul conto inglese. Il contribuente forse confidava che i giudici avrebbero notato l’evidente forzatura (irragionevolezza) del metodo presuntivo utilizzato dall’Ufficio che andava a riprendere un conglomerato di sei anni di bonifici senza considerare alcun decremento.
A ben vedere il metodo seguito dalla AE non è lontano dall’utilizzo di una doppia presunzione: (i) la presunzione sulla quantificazione delle attività finanziarie (base di calcolo per il TUR); e (ii) la presunzione sulla fruttuosità delle attività estere in misura pari al TUR. Effettivamente, la CTR aveva accolto le obbiezioni del contribuente.

La posizione della Cassazione

La Cassazione, invece, è stata estremamente severa nel contrastare l’agire del contribuente e nel criticare l’operato della CTR. Il passaggio chiarificatore della posizione della Cassazione è senza dubbio quello indicato al punto 3.1. della motivazione: “E’ evidente, dunque che, trattandosi di redditi di capitale non dichiarati, la motivazione che ha sorretto l’avviso di accertamento sull’integrità delle somme versate sui conti correnti inglesi e sulla fruttuosità dell’importo risultante dalla somma dei pagamenti effettuati in esecuzione del contratto di consulenza, appare idonea a sorreggere la presunzione a favore dell’Ufficio”.
La Cassazione critica poi l’operato della CTR sotto due aspetti: (A) la CTR “ha erroneamente applicato le regole del riparto dell’onere della prova tra le parti, ex art. 2697 c.c.., come pure ha violato gli art. 2727 e 2729 c.c. in tema di presunzioni, potendosi anche con un unico indizio, se preciso e grave, integrare la fattispecie di cui all’art. 2729 c.c.” (cfr punto 3.3. della Ordinanza); e (B) “il riferimento alla famiglia del contribuente e alle sue attività di svago quali sicure fonti di spesa, come fatti idonei ad intaccare l’entità delle somme di denaro depositate presso la banca inglese, appare una valutazione (ndr da parte della CTR) non pertinente, in quanto priva dei caratteri dell’indubitabilità e incontestabilità” (cfr. punto 4.3 della Ordinanza).
In altri termini viene affermato che: (1) l’indizio costituito dai bonifici in entrata dal 1998 al 2003 costituisce legittima base per presumere l’esistenza del capitale al 31.12.2003; (2) il contribuente non ha fornito la prova contraria richiesta dall’art. 6 DL 167/90 perché gli argomenti usati non hanno “in sé un grado di oggettività e di certezza, si da apparire indubitabili e incontestabili” (Cfr punto 4.2 Ordinanza in analisi).
È per tali affermazioni restrittive (e, forse, punitive verso i possessori di attività finanziarie estere non dichiarate) che l’Ordinanza in esame rappresenta un precedente assai sfavorevole per i contribuenti che dovessero in futuro confrontarsi con tali tematiche.
Invece, l’Ordinanza appare un po’ confusa e criticabile laddove, al fine di affermare l’irrilevanza delle spese (di svago) del contribuente afferma che la tassazione deiredditi di capitale debba avvenire “al lordo”, cioè senza la possibilità per i contribuenti di dedurre eventuali spese sostenute per la produzione del reddito (cfr punti 3.2 e 4.2 della Ordinanza).
Infatti, nessun dubbio che, generalmente i redditi di capitale sono determinati “al lordo”; tuttavia il contribuente aveva evidenziato la presenza di spese e costi (i) non per diminuire il reddito imponibile (i.e. gli interessi presunti); bensì (ii) per diminuire la consistenza delle attività finanziarie estere che costituiscono la base di calcolo su cui applicare il TUR (si è quindi nella fase precedente a quella della determinazione del reddito imponibile). Cioè non sembra proprio che il contribuente avesse affermato la deducibilità fiscale delle spese di svago.