Il dipendente in telelavoro all’estero non versa imposte in Italia
Notizia pubblicata su MEMENTOPIU’ del 30 aprile 2021 da Federico Andreoli
L’AE conferma che non vi è imponibilità in Italia per i redditi di lavoro percepiti da un dipendente non residente se il “luogo di prestazione” dell’attività lavorativa è situato all’estero, anche se l’attività è svolta con la modalità del telelavoro.
Attività di lavoro cross–border svolta in telelavoro
L’emergenza Covid-19 ha reso di grande attualità i temi del telelavoro e dello smart working nell’ambito della fiscalità internazionale. Ciò anche per i riflessi che essi hanno sulla determinazione della residenza delle persone fisiche per quei soggetti che, volente o nolente, a causa della pandemia, hanno mantenuto la presenza fisica e svolto l’attività lavorativa in uno Stato diverso dallo Stato di residenza. Si veda ad esempio quanto espresso nella interrogazione parlamentare il 3 dicembre 2020 e nelle linee guida dell’OCSE del 3 aprile 2020 “Oecd Secretariat Analysis of Tax Treaties and the Impact of the covid-19 Crisis”. L’interpello in esame non si inserisce in tale dibattito, ma fornisce comunque criteri interpretativi utili.
L’istanza di interpello – un caso di telelavoro ante Covid-19
Una società residente ha chiesto alla AE di chiarire se fossero imponibili in Italia i redditi di lavoro percepiti da un suo dipendente residente fiscalmente in UK che svolge la prestazione lavorativa in UK con le modalità del telelavoro. Con la Risposta in commento, l’AE ha giustamente sancito che non vi è imponibilità se le prestazioni lavorative sono svolte solo all’estero.
L’AE ha così applicato anche alla particolare fattispecie del telelavoro dei principi già espressi in numerose occasioni. Tuttavia, le affermazioni devono essere lette anche alla luce delle specifiche circostanze di fatto reperibili nella Risp. AE 27 aprile 2021 n. 296.
Infatti, tale documento precisa: (i) che il datore di lavoro italiano opera nel settore del softwaree dei servizi connessi; (ii) che il dipendente è stato assunto nel 2011 per lavorare in Italia e che solo nel 2017 ha chiesto di lavorare con modalità di “telelavoro” da svolgere presso la propria abitazione nel Regno Unito; (iii) che il dipendente si è iscritto all’AIRE nel 2019; e, soprattutto, (iv) che l’attività di lavoro è svolta con il personal computer dell’azienda italiana, attraverso una connessione VPN alla rete informatica dell’azienda, operando direttamente su archivi nel server presso la sede italiana.
Tale dettagliata descrizione porta a supporre che le condizioni contrattuali con le quali è stata concessa al dipendente la possibilità del telelavoro stabilissero nel dettaglio il luogo (l’abitazione del dipendente in UK) e le modalità della prestazione lavorativa. In altri termini, è probabile che sia stata fornita alla AE una prova davvero concreta che lo svolgimento dell’attività lavorativa fosse localizzata esclusivamente in UK.
In tal senso il telelavoro (sperimentato da diversi anni dalla stessa AE anche prima dell’emergenza Covid-19) presenta caratteristiche più precise e stringenti rispetto al generico e flessibile (ma più attuale) smart working.
La soluzione proposta dal contribuente
L’Istante ha chiesto alla AE se nel caso di specie fossero soddisfatti i criteri di territorialità di cui all’art. 23 c. 1 lett. c TUIR, secondo cui si considerano prodotti in Italia «i redditi da lavoro dipendente prestato nel territorio dello Stato». In altre parole, il criterio di collegamento ai fini dell’attrazione dei predetti emolumenti alla tassazione italiana (IRPEF e ritenute) è costituito dal luogo in cui è svolta la prestazione lavorativa. Pertanto, per norma domestica, un lavoratore residente all’estero sconta imposte in Italia su tutti i compensi corrisposti per l’attività lavorativa svolta in Italia (in tal senso, Risp. AE 13 dicembre 2019 n. 521 e Risp. AE 7 settembre 2020 n. 316). Curiosamente, la soluzione proposta dal contribuente all’AE concludeva per l’imponibilità dei redditi in Italia (anche se l’attività lavorativa è svolta in UK), tanto è vero che sono sempre state effettuate le ritenute alla fonte ex art. 23 DPR 600/73. Ciò sulla base di una particolare interpretazione del rapporto di lavoro svolto con le modalità del telelavoro. Infatti, l’istante ha sostenuto che in caso di telelavoro, il luogo in cui deve ritenersi svolta l’attività lavorativa è quello in cui ha sede l’azienda in quanto è presso questa che si manifesta l’attività svolta, a nulla rilevando il luogo nel quale la prestazione è effettuata (nel caso di specie, abitazione del lavoratore in UK).
La (corretta) risposta della AE
La Risposta non si allinea alla soluzione proposta dal contribuente. Pur riconoscendo le peculiarità dello svolgimento della prestazione lavorativa con la modalità del telelavoro, l’AE conferma che, anche in tale caso, l’imponibilità dipende dal luogo dove il lavoratore dipendente è fisicamente presente quando esercita le attività per cui è remunerato.
Per giungere a tale affermazione l’AE richiama la norma domestica (l’art. 23 c. 1 lett. c TUIR), ma soprattutto l’art. 15 della Convenzione fra Italia e UK che stabilisce (al paragrafo 1) che i salari, gli stipendi e le altre remunerazioni analoghe che un residente di uno Stato contraente [UK] riceve in corrispettivo di un’attività dipendente sono imponibili soltanto in detto Stato, a meno che tale attività non venga svolta nell’altro Stato contraente [Italia].
Inoltre, l’AE richiama quanto disposto dal paragrafo 1(1) del Commentario OCSE all’art. 15 che dà preminente rilevanza alla presenza fisica del lavoratore in uno Stato (UK) al momento della prestazione lavorativa, indipendentemente dal fatto che i risultati dell’attività lavorativa siano utilizzati nell’altro Stato (Italia).
In modo condivisibile l’AE conclude affermando che anche se i risultati della prestazione lavorativa sono utilizzati in Italia, la tassazione del reddito deve avvenire solo nel Regno Unito, Paese in cui il telelavoratore è fisicamente presente e fiscalmente residente quando svolge la propria attività lavorativa. Il reddito percepito dal dipendente non è quindi imponibile in Italia e il datore di lavoro può astenersi dall’applicare le ritenute.
Le conclusioni raggiunte valgono anche in assenza di convenzione?
Il percorso argomentativo seguito dalla AE si basa principalmente sul testo della convenzione tra Italia e UK e sul Commentario OCSE. Ci si deve quindi chiedere se le medesime conclusioni sarebbero state raggiunte con riferimento ad un dipendente residente in uno Stato che non beneficia di una convenzione. A rigore, a tale domanda dovrebbe essere data risposta positiva poiché entrambe le disposizioni (domestica e convenzionale) collegano i diritti impositivi dell’Italia al “luogo di prestazione” dell’attività lavorativa. In tal senso, anche in assenza di convenzione, il criterio della presenza fisica (all’estero) dovrebbe prevalere sul luogo di utilizzazione (Italia) dei servizi resi dal dipendente in telelavoro.
Commento ad Agenzia Entrate – Interpello 296 del 27 aprile 2021