Smart working e Covid-19: effetti fiscali sui lavoratori expatriates
Notizia pubblicata su MEMENTOPIU’ del 04 Novembre 2021 da Federico Andreoli
Smart working e Covid-19: effetti fiscali sui lavoratori expatriates
Recenti pronunciamenti AE analizzano lo smart working sotto diversi profili
La pandemia Covid-19, la conseguente restrizione alla mobilità dei lavoratori e la diffusione dello smart working, hanno anche rilevanti effetti tributari per gli expatriates. Alcuni recenti pronunciamenti dell’AE affrontano il tema sotto diverse angolature:
1) la residenza fiscale del lavoratore che presta la propria attività in smart working (Risp. AE 7 luglio 2021 n. 458);
2) l’applicabilità del regime degli rimpatriati per attività lavorativa svolta in smart working in Italia a favore di datore di lavoro estero (Risp. AE 16 settembre 2021 n. 596 e par. 7.5 Circ. AE 28 dicembre 2020 n. 33/E);
3) la possibile presenza in Italia di una stabile organizzazione del datore di lavoro non residente relativamente a dipendete in smart working in Italia (par. 7.5 Circ. AE 28 dicembre 2020 n. 33/E);
4) la non applicabilità del regime degli impatriati per attività di lavoro svolta in smart working all’estero (Risp. AE 23 settembre 2021 n. 621);
5) luogo della prestazione lavorativa in smart working ai fini del regime della retribuzione convenzionale ai sensi dell’art. 51 c. 8-bis TUIR (Risp. AE 17 maggio 2021 n. 345; Risp. AE 7 luglio 2021 n. 458; e Risp. AE 15 settembre 2021 n. 590).
Alla luce di questi pronunciamenti è possibile fornire una visione complessiva di come l’AE valuti lo smart working.
Smart working e Covid-19: effetti sulla residenza fiscale
Con riferimento all’ordinario svolgimento del proprio lavoro, i lavoratori c.d. expatriates hanno subito più di altri l’emergenza della crisi sanitaria internazionale del Covid-19. Infatti, la chiusura degli uffici e le restrizioni alla circolazione delle persone, hanno ridotto gli spostamenti e costretto le aziende ad adottare lo smart working (a volte) per la totalità dei lavoratori e per numerosi mesi. Ciò ha costretto (talvolta indotto) molti expatriates a svolgere, per periodi più o meno lunghi, la loro attività in un luogo diverso da quello previsto dal contratto di lavoro. In entrambe le Risp. AE 17 maggio 2021 n. 345 e Risp. AE 7 luglio 2021 n. 458, i contribuenti hanno giustamente evidenziato che le rigorose restrizioni alla mobilità (e la possibilità di svolgere l’attività con modalità smart working) hanno determinato in alcuni casi un immobilismo forzato in uno Stato e, in altri casi, la necessità di rientri improvvisi nei Paesi di origine, impedendo poi ai dipendenti il ritorno nel luogo in cui normalmente l’attività veniva prestata. Inoltre, è noto che per molti expatriates (assunti da società multinazionali) il rientro nel Paese in cui si sarebbe dovuto svolgere la prestazione lavorativa ordinaria avrebbe comportato comunque la necessità dello smart working dalla propria abitazione per la chiusura degli uffici.
Tutto ciò per sottolineare che nel biennio 2020-2021: (i) il criterio della presenza fisica (in Italia o all’estero) per un periodo di 183 giorni è stato fortemente influenzato dai vari “lock down”; (ii) che in molti casi la presenza fisica è dipesa da fatti non legati alla volontà del lavoratore; e (iii) che lo smart working ha reso quasi irrilevante, ai fini della prestazione lavorativa, la presenza fisica del lavoratore in uno Stato oppure in un altro.
Così ad esempio nella Risp. AE 7 luglio 2021 n. 458 il contribuente (una società italiana che aveva distaccato presso una consociate cinese 12 dipendenti rientrati in Italia a causa dell’emergenza Covid-19), ha affermato che il distacco dei lavoratori in Cina da un punto di vista contrattuale non ha subito modifiche e che i dipendenti hanno continuato la loro attività senza interruzioni o variazioni contrattuali, quanto a mansioni svolte a favore della legal entity cinese beneficiaria delle prestazioni di lavoro, quanto alle linee di riporto del lavoratore stesso e quanto alla loro struttura remunerativa.
Su queste premesse si possono esaminare gli effetti del Covid-19 e dello smart working ai fini della determinazione della residenza fiscale in Italia.
Come è noto l’art. 2 TUIR ha come punto di riferimento temporale la maggior parte del periodo d’imposta. Anche se la norma non si riferisce espressamente alla “presenza fisica”, ma ai concetti di residenza, domicilio e iscrizione nelle anagrafi della popolazione residente, è evidente che la permanenza in Italia di un lavoratore per un periodo superiore a 183 giorni potrebbe attrarre in Italia la sua residenza fiscale.
Ai fini delle convenzioni contro le doppie imposizioni, nei casi in cui una persona fisica sia considerata residente di entrambi gli Stati contraenti, le c.d. “tie breaker rules” fissano i criteri dirimenti al fine di stabilire la residenza della persona fisica prendendo in considerazione, nell’ordine: la disponibilità di un’abitazione permanente, il centro degli interessi vitali, il luogo in cui il soggetto soggiorna abitualmente e la nazionalità.
È stato da subito evidente che l’emergenza Covid-19 imponeva una rimodulazione di tali criteri.
Tali aspetti sono stati affrontati dall’OCSE in un documento del 3 aprile 2020 (OECD Secretariat Analysis of tax treaties and the impact of the COVID-19 crisis) e successivamente aggiornato il 21 gennaio 2021 (Updated guidance on tax treaties and the impact of the COVID-19 pandemic). In estrema sintesi l’OCSE afferma che nella interpretazione dei trattati e in particolare: (a) nella valutazione delle c.d. tie-breaker rules previste dal par. 2 dell’articolo 4 del Modello di Convenzione; e (b) nel considerare il concetto “soggiorno abituale” (abitual abode) e il numero di giorni di permanenza in un Paese, gli Stati dovessero considerare le circostanze straordinarie legate al Covid-19 e ai lock-down. L’Italia ha partecipato a tali lavori dell’OCSE e li ha confermati con la risposta all’interrogazione parlamentare 3 dicembre 2020 n. 5-04654.
Dal punto di vista pratico, poi, l’AE ha affrontato la questione nella sopra citata Risp. AE 7 luglio 2021 n. 458, in cui la società italiana aveva, tra l’altro, chiesto all’AE se la permanenza in Italia per più di 184 giorni (durante l’anno bisestile 2020) dei 12 dipendenti distaccati in Cina (e residenti fiscalmente in Cina negli anni ante Covid-19) che erano riusciti a rientrare in Italia a febbraio 2020 dopo lo scoppio della pandemia, per lavorare in smart working dall’Italia, abbia o meno comportato una modifica nel loro status di residenza fiscale.
Sulla base dei lavori dell’OCSE, della interrogazione parlamentare del 3/12/2020 e degli accordi sottoscritti a fine 2020 dall’Italia con Francia, Austria e Svizzera (Stati limitrofi interessati da rilevante mobilità transfrontaliera dei lavoratori), la risposta della AE è stata sostanzialmente positiva anche se in termini molto prudenti, affermando che nel valutare il criterio del “soggiorno abituale” di cui alle c.d. tie-breaker rules previste dalle convenzioni bilaterali “il test per dirimere il conflitto di residenza non sarà soddisfatto semplicemente determinando in quale dei due Stati contraenti l’individuo ha trascorso più giorni durante il periodo interessato. Al fine di stabilire il luogo del soggiorno abituale, occorre infatti tener conto della frequenza, durata e regolarità dei soggiorni che fanno parte della routine regolare della vita di un individuo. Inoltre, l’analisi deve coprire un periodo di tempo sufficiente per poter accertare tali aspetti evitando l’influenza di situazioni transitorie” (come quelle connesse all’emergenza pandemica).
In conclusione, l’AE ha confermato che nell’ambito delle situazioni eccezionali legate all’emergenza Covid-19, la presenza in Italia per un periodo di lavoro in smart working anche superiore ai 183 giorni non determina, da solo, l’attrazione della residenza in Italia.
Smart working in Italia a favore di datore di lavoro estero
Come è noto l’art. 16 DL 147/2015 (come più volte modificato) ha introdotto il c.d. regime per i lavoratori impatriati che prevede un fortissimo abbattimento della base imponibile al ricorrere di alcune condizioni. In estrema sintesi le condizioni sono che il lavoratore: a) trasferisca la residenza in Italia; b) non sia stato residente in Italia nei due periodi d’imposta precedenti; e c) svolga l’attività lavorativa prevalentemente nel territorio italiano.
La Risp. AE 16 settembre 2021 n. 596 analizza proprio quest’ultima condizione con riferimento ad un soggetto che intende trasferirsi in Italia per lavorare in smart working dall’Italia per un datore di lavoro non residente (una società statunitense). Il quesito era quindi se l’attività lavorativa svolta con modalità smart working potesse fare accedere al regime speciale anche se l’attività è a favore di un datore di lavoro estero.
Il parere espresso dall’AE è molto netto in senso positivo. L’AE richiama quanto già affermato al par. 7.5 Circ. AE 28 dicembre 2020 n. 33/E sul fatto che il citato art. 16 non richiede che l’attività sia svolta per un’impresa operante sul territorio dello Stato, ma solamente che l’attività del lavoratore sia svolta prevalentemente in Italia. Pertanto, l’AE afferma che possono accedere all’agevolazione del regime degli impatriati i soggetti che vengono a svolgere in Italia attività di lavoro alle dipendenze di un datore di lavoro con sede all’estero.
In tal modo l’AE afferma implicitamente che la prestazione lavorativa si considera svolta dove è presente il lavoratore anche se esso lavora con modalità di smart working. Indicheremo in seguito che l’AE si è espressa in questi termini anche in altre risposte (Risp. AE 7 luglio 2021 n. 458;
Risp. AE 15 settembre 2021 n. 590; Risp. AE 16 settembre 2021 n. 596; Risp. AE 23 settembre 2021 n. 621).
Lo smart working in Italia può costituire una stabile organizzazione del datore di lavoro estero
Si è indicato precedentemente che ciò che rileva per la localizzazione dell’attività lavorativa è la presenza fisica del lavoratore e non la modalità con la quale di lavoro è concretamente svolto.
Quindi, il lavoratore che presta la propria attività in Italia per un datore il datore di lavoro non residente costituisce una presenza in Italia dell’entità estera anche se l’attività è svolta in smart working.
Coerentemente con tale impostazione, con riferimento al regime dei lavoratori impatriati, l’AE ha affermato che il lavoratore impatriato (che svolge la sua attività lavorativa in Italia) “potrebbe configurare una stabile organizzazione nel territorio dello Stato del datore di lavoro non residente, ai sensi di una Convenzione contro le doppie imposizioni conclusa dall’Italia, ove esistente, o ai sensi dell’articolo 162 del TUIR” (Circ. AE 28 dicembre 2020 n. 33/E, par. 7.5).
In linea di principio l’affermazione della AE non è criticabile; tuttavia, per quanto riguarda i lavoratori in smart working dovrà essere verificata quale sia l’attività svolta dagli stessi e se questa possa davvero qualificarsi come una stabile organizzazione. Inoltre, se l’attività in smart working fosse svolta dal lavoratore presso sua abitazione personale in Italia, dovrà essere verificato se tale abitazione possa essere qualificata come una “sede fissa” a disposizione dell’impresa estera.
Lo smart working dall’estero non beneficia del regime degli impatriati
Si è già indicato che l’AE identifica il luogo della prestazione lavorativa nel luogo dove è presente il lavoratore. L’AE ha recentemente affermato che il lavoratore che svolge la propria attività in smart working dall’estero non può beneficiare del regime degli impatriati anche se l’attività è a favore di un datore di lavoro italiano. Ciò in quanto non è soddisfatta la condizione richiesta dall’art. 16 D.Lgs. 147/2015 che richiede che il lavoratore svolga l’attività lavorativa prevalentemente nel territorio italiano.
Questa è la posizione espressa nella Risp. AE 23 settembre 2021 n. 621. Il caso è quello di dipendente di una società italiana che, nel corso del 2020 a causa del Covid-19, è stato presente in Italia solo 76 giorni e che per il resto dell’anno ha lavorato in smart working dai Paesi Bassi.
Si legge nella Risp. AE 23 settembre 2021 n. 621 che “luogo di prestazione” dell’attività lavorativa, nella particolare ipotesi di svolgimento della prestazione medesima nella modalità di svolgimento dell’attività lavorativa flessibili (cd. smartworking o lavoro da remoto) bisogna avere riguardo al luogo dove il lavoratore dipendente è fisicamente presente quando esercitale attività per cui è remunerato.”
Smart workig e regime della retribuzione convenzionale ex art. 51 c. 8-bis TUIR
Le predette posizioni dell’AE in merito allo smart working sono state ribadite recentemente in varie occasioni anche con riferimento all’applicazione del regime della c.d. retribuzione convenzionale (art. 51 c. 8-bis TUIR). La norma dispone che: “il reddito di lavoro dipendente, prestato all’estero in via continuativa e come oggetto esclusivo del rapporto da dipendenti che nell’arco di dodici mesi soggiornano nello Stato estero per un periodo superiore a 183 giorni, è determinato sulla base delle retribuzioni convenzionali definite annualmente” con apposito DM.
Come è noto il regime di favore previsto dal comma 8-bis si rivolge a quei lavoratori che, pur svolgendo l’attività lavorativa all’estero, continuano ad essere qualificati come residenti fiscali in Italia per aver mantenuto in Italia la residenza o il domicilio (generalmente la famiglia, l’abitazione ecc.). Il regime comporta che il reddito derivante dal lavoro dipendente prestato all’estero è assoggettato a tassazione assumendo come base imponibile la (favorevole) retribuzione convenzionale fissata da un decreto del Ministero del lavoro e delle Politiche Sociali, senza tener conto della retribuzione effettivamente corrisposta al lavoratore.
A seguito dell’emergenza Covid-19, più contribuenti si sono rivolti all’AE per sapere come lo smart working dovesse essere interpretato ai fini delle due condizioni richieste dalla norma: (i) attività lavorativa prestato all’estero in via continuativa; e (ii) soggiornano nello Stato estero per un periodo superiore a 183 giorni.
La Risp. AE 7 luglio 2021 n. 458 riguarda i lavoratori distaccati in Cina che, causa Covid, hanno svolto l’attività lavorativa in smart working dall’Italia.
La Risp. AE 15 settembre 2021 n. 590 riguarda un dipendente distaccato in Germania che potrebbe svolgere parte delle proprie attività in smart working dalla propria abitazione in Italia.
La Risp. AE 17 maggio 2021 n. 345 riguarda un dipendente distaccato a Parigi che, causa Covid-19, è rientrato in Italia nel febbraio 2020 e ha svolto l’attività in smart working dalla propria abitazione in Italia.
In tutti questi casi l’AE ha fornito risposta negativa all’applicabilità del regime agevolativo, ritenendo che non fossero soddisfatte le predette condizioni. Le motivazioni sono comuni nei 3 interpelli. L’AE afferma che il criterio adottato dal legislatore ai fini dell’applicazione delle norme interne che disciplinano la tassazione del reddito di lavoro dipendente è quello della presenza fisica del lavoratore nello Stato in cui viene effettuata la prestazione lavorativa. A tal riguardo la AE ritiene che per “luogo di prestazione” dell’attività lavorativa, nella particolare ipotesi di svolgimento con modalità lavorativa flessibili (cd. Smart working o lavoro da remoto) bisogna avere riguardo al luogo dove il lavoratore dipendente è fisicamente presente quando esercitale l’attività per cui è remunerato (Risp. AE 23 settembre 2021 n. 621). Conseguentemente, Lo svolgimento in Italia dell’attività lavorativa in smart working comporta la presenza fisica della dipendente in Italia e, conseguentemente, il mancato rispetto della condizione richiesta dall’art. 51 c. 8-bis TUIR nell’ipotesi in cui nell’arco di 12 mesi soggiorni in Italia per un periodo pari superiore 183 giorni (Risp. AE 15 settembre 2021 n. 590).
In conclusione
Le considerazioni dell’AE sul tema dello smart working sono condivisibili dal punto di vista sistematico, nel senso che seguono gli “ordinari” criteri interpretativi. Tuttavia, è proprio il concetto di “ordinarietà” che stona nell’ambito dell’emergenza del Covid-19. Si noti che 3 dei 5 interpello qui commentanti sono state presentati espressamente per valutare effetti legati alla situazione straordinaria pandemica.
Al riguardo è comprensibile che l’AE non abbia voluto fornire risposte favorevoli generalizzate, magari nel timore di fornire precedenti valevoli anche una volta passata l’emergenza; o, magari, sulla base della considerazione che lo smart working svolto in uno Stato piuttosto che in un altro sia stato una necessità per alcuni dipendenti, ma anche una scelta per altri.
Tuttavia, alcune delle risposte dell’AE stridono fortemente con le situazioni che hanno tragicamente caratterizzato il biennio 2020 e 2021, con le difficoltà dei lavoratori e delle imprese e con la buona fede che ha spinto i contribuenti a rivolgersi all’AE (per altro al fine di avere chiarezza su una circostanza quasi impossibile da verificare in sede di accertamenti tributari, come la localizzazione del dipendente in smart working).
Così l’AE sembra odiosamente lontana dalla realtà quando sostiene che in tale biennio chi ha lavorato all’estero in smart working non può beneficiare del regime degli impatriati (art. 16 D.Lgs 147/2015); o che chi ha lavorato in smart working dall’Italia non può beneficiare del regime della retribuzione convenzionale (art. 51 c. 8-bis TUIR). Con riferimento al tema della residenza, l’AE si era impegnata a seguire le indicazioni dell’OCSE e a tenere conto delle circostanze eccezioni legate alla pandemia; non vi sono ragioni per cui non abbia tenuto conto delle medesime circostanze anche con riferimento al lavoro in smart working ai fini dei regimi agevolativi.